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Riflessioni sulle Linee Guida di Riforma del Terzo Settore

Scritto da  Vincenzo Giarmoleo
Elaborare un commento tecnico su un documento di programma denominato linee guida per la riforma, è sempre operazione liminare e in ogni caso non definitiva, come non lo è il testo presentato dal Governo il 12 maggio 2014, perché il Consiglio dei Ministri, in data 27 giugno 2014 – nelle more si aprirà il confronto sul tema tra governo e i soggetti interessati - lo trasformerà in disegno di legge delega. 
Il procedimento scelto è la collaudata modalità prevista all’articolo 76 Cost., quella della legge delega da approvare da parte delle camere, cui il governo darà poi concreta attuazione con decreti delegati che dovranno rispettare principi e criteri direttivi indicati nella delega.
L’obiettivo enunciato è ambizioso: si tratta, finalmente, di metter mano alle strutture disciplinate nel Libro I Titolo II del codice civile per armonizzarlo con le successive leggi settoriali e con le numerose norme tributarie, mediante lo strumento del Testo Unico. Ne dovrebbe risultare un Codice degli enti non profit che realizzi il pieno coordinamento fra strutture giuridiche, finalità sociali e trattamenti fiscali di favore, nel quadro costituzionale disegnato dagli articoli 2 e 118 Cost., in sintonia con i principi di solidarietà sociale e di sussidiarietà. 
Dal punto di vista politico, la riforma del terzo settore, secondo le linee guida, è insieme modello e strumento di realizzazione d’un nuovo Welfare di partecipazione, ove il Terzo settore possa diventare il primo per importanza strategica, un locomotore trainante l’economia che oggi arranca anche perché appare non più governata o, peggio ancora, ingovernabile. 
Riguardo al Welfare, sarebbe interessante poter conoscere idee e progetti del governo in merito all’apertura al privato sociale di mercati strategici come sanità e previdenza, considerati servizi pubblici per antonomasia, cui però non si fa cenno nelle Linee Guida. Si dice di voler valorizzare potenzialità e crescita delle organizzazioni non profit, le loro risorse professionali e le relative opportunità di lavoro, ma non si inserisce alcun cenno, nel dibattito per la riforma del terzo settore, ai due settori più impegnativi per lo Stato e per gli enti locali, più penalizzanti per il bilancio pubblico e oggetto di critiche per inefficienza, sprechi ed oneri: potrebbe essere un’occasiona persa. Politica e P.A. dettino le regole d’ingaggio per l’ingresso del privato sociale nel mercato dei servizi essenziali e si liberino, una volta per tutte, di costi e clientele legati a sanità e previdenza pubbliche. Proviamo a elencare qui di seguito positività, criticità e contraddizioni contenute nelle linee guida:
1) tra gli obiettivi strategici delle riforma troviamo la promozione dei comportamenti donativi e prosociali di cittadini e imprese: un favor per il fundraising, dunque, inteso sia in senso economico che di incentivo all’aumento della sensibilità sociale e alla sua conversione in tempo donato e risorse prestate da cittadini privati e imprese alle organizzazioni non profit. Ciò è positivo in sé, ma dovrà essere accompagnato da politiche di liberalizzazione delle risorse economiche e finanziarie, senza le quali il terzo settore non potrà avere un futuro di crescita.
2) identificare e ritagliare specifici spazi alle strutture giuridiche dell’autentico non profit in modo che emergano soltanto i soggetti, con o senza personalità giuridica, che perseguano finalità pubbliche o di utilità o di promozione sociale: concetti e formule che però, in assenza d’una traduzione in concrete e selezionate attività, restano contenitori vuoti, che vengono poi riempiti, se non dal legislatore con definizioni puntuali, dalla giurisprudenza o dalla prassi, in modo non sempre appropriato.
3) di conseguenza, eliminare e restituire al mercato profit le figure giuridiche di confine, che opportunisticamente interpretano in modo azzardato alcune norme fiscali di favore, utilizzando la forma associativa come schermo, per poi fornire servizi o beni a costi inferiori rispetto alle aziende concorrenti nel mercato, tutelando invece le imprese che non forzano il disposto normativo e che sono penalizzate da slealtà e scorrettezza e dai comportamenti elusivi di sedicenti enti non profit.
4) Pubblica amministrazione e Terzo settore devono essere le gambe su cui fondare una nuova Welfare society: affermazione condivisibile e ambiziosa, da tradurre in concreto con coraggio e determinazione, eliminando carrozzoni pubblici inefficienti e costosi e abbattendo le barriere d’ingresso al privato sociale che ancora impediscono alle aziende non profit di partecipare alla gestione e all’erogazione dei servizi pubblici essenziali.
5) beni e i servizi di interesse generale devono poter essere offerti da imprese sociali. Diventa indispensabile, a questo punto, definire soggetti e ruolo delle c.d. imprese sociali, struttura giuridica (societaria, finalmente … o deve restare un eterno tabù?) e governance, con possibilità di generare utili e anche di distribuirli ai soci, definendo meglio obiettivi sociali possibili e mezzi da impiegare per raggiungerli, ponderando l’opportunità di introdurre benefici tributari a favore di dette imprese e condizioni per ottenerli.
6) l’idea di rilanciare un Servizio civile nazionale universale, purché non obbligatorio, di durata non eccessiva, fondato sul valore di difesa della Patria (etimologicamente, terra dei padri: sterilizziamo il concetto deprivandolo d’ogni pulsione retorica) pare stimolante e di alto valore formativo. Occorre immaginare una nuova educazione e coscienza civica che si esprimano, al più alto livello, in termini di cittadinanza attiva e consapevole, e questo percorso si snoda attraverso il lavoro nel privato sociale che può generare sensibilità rispetto ai valori fondanti di convivenza civile e che formi nuove e alte professionalità. Le linee guida lo descrivono come volontario, fino a un massimo di 100.000 unità all’anno per i primi tre anni, formato da giovani -  di età non definita – per una durata minima di otto mesi, prorogabile di quattro mesi, con partecipazione degli stranieri (va benissimo: ma allora il riferimento alla Patria appare davvero retorico e fuori luogo) e previsione di benefit per i volontari come: crediti formativi universitari, tirocini universitari e professionali, riconoscimento delle competenze acquisite durante il servizio. Si prevede la possibilità di stipulare accordi tra Regioni e Province Autonome e con le associazioni di categorie degli imprenditori, delle cooperative e del terzo settore, allo scopo di facilitare l’ingresso sul mercato del lavoro dei volontari e infine la possibilità di servire come volontario civile in un altro paese UE in regime di reciprocità (valgano le osservazioni sopra dette a proposito del riferimento alla Patria).
7) Stabilità al sostegno economico pubblico e privato del terzo settore che sia compatibile con la riduzione al minimo dei rischi di elusione fiscale: obiettivo che se fosse riferito già soltanto al 5 per mille IRPEF, sarebbe già apprezzabile, ma è comprensibile e giusto che la riforma debba essere più ambiziosa al riguardo. 
Ma vediamo di concentrare l’esame sui punti “tecnici “ del progetto di riforma. In primo luogo vi è la riforma del codice civile con introduzione o modifica delle norme che riguardano la costituzione degli enti e la loro autonomia statutaria, con particolare riguardo ai soggetti privi di personalità giuridica (associazioni e comitati), definizione dei requisiti sostanziali degli enti ed eventuali limitazioni di attività. Qui si apre un duplice possibile scenario: il legislatore della delega opterà per modelli organizzativi tipici e neutri, come quelli del codice vigente, nel pieno rispetto del principio di neutralità delle forme giuridiche, o verranno specificate e delimitate le finalità perseguibili (introducendo, quindi, limiti teleologici alle forme civilistiche tipiche del non profit)? E’ un prima domanda che attende risposta. La seconda riguarda i principi di democraticità e di partecipazione alle strutture di governance. Saranno vincolanti per tutte le forme giuridiche del non profit (fondazioni comprese, con ciò stravolgendo l’originaria struttura e forse anche la funzione, una volta per tutte) o saranno applicati, come nell’attuale regime, soltanto ad alcuni enti associativi (Onlus etc.)? Quanto all’obbligo di trasparenza e di comunicazione economica e sociale all’esterno, non è chiaro se si opterà per l’obbligatorietà del bilancio sociale per tutte le organizzazioni non profit. Il rischio è che si producano nuove certificazioni e certificatori pronti a tuffarsi nel nuovo mercato senza che il bilancio sociale generi più efficacia ed efficienza nei processi aziendali e una migliore consapevolezza degli obiettivi strategici dell’organizzazione da parte degli stakeholder.
In tema di responsabilità degli organi di governo ci si domanda se la riforma recherà l’estensione delle norme societarie di responsabilità degli amministratori anche alle organizzazioni del privato sociale, come sarebbe opportuno e come da tempo si richiede. Sul punto delle procedure per il riconoscimento della personalità giuridica, si invoca un intervento legislativo che semplifichi, da un lato, e dall’altro renda uniforme la prassi - oggi eterogenea - delle indicazioni delle prefetture, competenti a pronunziarsi sul riconoscimento ex DPR 361/2000. Occorre stabilire una volta per tutte il capitale sociale minimo richiesto da sottoscrivere e da versare in sede di costituzione avanti al notaio per le associazioni e per le fondazioni che aspirano a ottenere la personalità giuridica, risolvendo così alla radice le incertezze createsi per effetto di differenti interpretazioni - delle prefetture competenti per territorio - del concetto di adeguatezza del patrimonio allo scopo dell’ente da riconoscere. La proposta di legge di riforma n.165 del 15.3.2013 (proposta Bobba) prevedeva, giustamente, l’attribuzione al notaio delle competenze sul  riconoscimento - con una sorta di omologazione formale - e delle successive modifiche statutarie. La riforma imminente indica, nelle linee guida, soltanto l’obiettivo da raggiungere: semplificazione e snellimento delle procedure, anche attraverso la digitalizzazione telematica. Vedremo che cosa significherà in concreto. 
Anche sul tema della diversificazione dei modelli organizzativi in ragione della dimensione economica dell’attività, dell’utilizzazione prevalente o rilevante di risorse pubbliche e del coinvolgimento della fede pubblica, la proposta Bobba del 2013 proponeva soluzioni interessanti; infatti, per le organizzazioni più importanti economicamente, per quelle che utilizzano fondi pubblici o che sollecitano la fede pubblica, si introducevano particolari regole di trasparenza e di informazione, una peculiare disciplina organizzativa e controlli pubblici. Le linee guida menzionano il tema senza indicare il criterio da impiegare per diversificare i modelli. Saranno oggetto di intervento anche i criteri di gestione economica delle organizzazioni, l’accertamento e i controlli di autenticità dell’attività svolta (con verifiche sui risultati o mediante accertamenti formali?) e il principio di tenuta di contabilità separate per attività istituzionale e attività imprenditoriale (già previsto da alcune norme fiscali).
Quanto alla codificazione dell’impresa sociale si pone un punto interrogativo, nel silenzio delle linee guida: il legislatore della riforma avrà il coraggio di sciogliere il nodo gordiano che da sempre tiene prigioniero il settore di vetusti principi e di ataviche paure? Si concederà finalmente la possibilità di perseguire finalità sociali - magari con controlli seri sui risultati finali - organizzandosi anche in strutture societarie con libertà di produrre, impiegare e destinare gli utili prodotti, compresa la distribuzione di dividendi ai soci? La fondazione società per azioni o l’associazione commerciale diventeranno finalmente realtà, come nel più pragmatico diritto tedesco? Naturalmente, la massima libertà organizzativa, d’impiego e di destinazione finale degli utili dovrà implicare, da una parte, il pieno rispetto dei principi comunitari di libera concorrenza, dall’altra, l’assenza di agevolazioni fiscali dirette o indirette (fatto salvo, a nostro avviso, un ponderato favor fiscale per i donatori). Le indicazioni fornite dal documento governativo sulla riforma non sono, tuttavia, molto chiare. Al punto 9 delle linee guida si parla di:
9) superamento della qualifica opzionale di impresa sociale, rendendo non facoltativa ma obbligatoria l’assunzione dello status di impresa sociale per tutte le organizzazioni che ne abbiano le caratteristiche, senza tuttavia indicarle in concreto. Rispetto all’impresa sociale disegnata dal D.Lgs. 155/2006, l’obbligatorietà della qualifica è un’ingombrante novità, la cui ratio è difficile da comprendere facendo riferimento alle caratteristiche dell’impresa sociale delineate nelle stesse linee guida (ai successivi punti da 10 a 15), vale a dire:
10) ampliamento delle materie di particolare rilievo sociale, che ne definiscono l’attività; 
11) ampliamento delle categorie di lavoratori svantaggiati;
12) previsione di forme limitate di remunerazione del capitale sociale: dal nostro punto di vista, non vi è alcuna ragione di limitare la remunerazione del capitale, se si predispongono i controlli necessari a verificare il raggiungimento degli obiettivi sociali mediante l’attività concretamente svolta;
13) riconoscimento delle cooperative sociali come imprese sociali di diritto: mettendo, per un attimo, da parte il problema della qualifica dell’uno e dell’altro modello di impresa, si rischia di generare ulteriore confusione, visto che le cooperative sociali sono già Onlus di diritto. Occorrerà decidere una volta per tutte se imprese sociali sono le cooperative sociali ovvero se tale qualifica debba attribuirsi a un modello organizzativo completamente nuovo e diverso dalle prime.
14) armonizzazione delle agevolazioni e dei benefici di legge riconosciuti alle diverse forme del non profit: è una previsione fuori contesto, perché contenuta nel bel mezzo di un’elencazione di caratteristiche delle future imprese sociali, che però acquista senso compiuto se è riferita a organizzazioni non profit che non sono imprese sociali. E’ evidente, in ogni caso, ove si adotti un concetto moderno di impresa sociale che possa liberamente distribuire utili ai soci, che occorrerà differenziare invece che armonizzare agevolazioni e benefici, tenendo conto del divieto comunitario di fornire aiuti di Stato anche indirettamente tramite politiche di  favor tributario. Nelle linee guida si prevede di introdurre incentivi che indirettamente favoriscano le imprese sociali, mediante detrazioni e deduzioni fiscali a favore degli “utenti” e mediante l’utilizzo di voucher. Qui occorrerà trovare il delicato bilanciamento tra opposti principi e tutele che, su questo piano, entrano in frizione.
15) promozione di un Fondo per le imprese sociali e sostegno alla rete di finanza etica: sarà di incentivo allo sviluppo economico e finanziario dell’impresa sociale, specie se le si concederà la possibilità di ricorrere ai capitali privati a fronte dell’emissione, ad esempio, di obbligazioni sociali o solidali, meglio se nel contesto di una puntuale normativa che istituisca e disciplini una borsa del privato sociale, nell’ambito della quale acquistino valore sistematico previsioni di premi e trattamenti fiscali di favore per i risparmiatori che decidano di investire in titoli finanziari etici, come norme e incentivi che le stesse linee guida - al punto 27 - prevedono di definire in sede di legge delega. 
Si spera di sbagliare su questo punto tuttavia l’impressione che si trae dalla lettura di queste indicazioni è che per implementare la c.d. impresa sociale si voglia clonare l’assetto giuridico delle cooperative sociali, con differenze minime e quasi irrilevanti, ciò che, ovviamente, renderebbe inutile l’intervento in materia. 
Si prevede pure una revisione della legge 266/91 sul volontariato sulla base di  una serie di criteri, tra i quali: la formazione alla cittadinanza del volontariato nelle scuole, idea meritevole di educazione civica, se comporta la partecipazione attiva a concrete attività, in forme da studiare con cautela e attenzione; revisione del sistema degli albi regionali e istituzione di un registro nazionale, interessante se si riorganizza su base nazionale tutto il sistema degli albi e degli elenchi, anche per Onlus e associazioni di promozione sociale; riduzione degli adempimenti burocratici e introduzione di modalità adeguate e unitarie di rendicontazione economica e sociale: non si può non esser d’accordo, purché la rendicontazione (bilanci economici e sociali) non diventi ulteriore carico di burocrazia per le OdV; introduzione di criteri più trasparenti nel sistema di affidamento in convenzione dei servizi al volontariato, promozione e riorganizzazione del sistema dei centri di servizio quali strumenti di sostegno e supporto alle associazioni di volontariato.
La revisione della legge 383/2000 sulle associazioni di promozione sociale dovrà invece razionalizzare le modalità di iscrizione ai registri, ridefinire l’Osservatorio Nazionale dell’Associazionismo (è stato molto criticato: sarà meglio eliminarlo, con i relativi sprechi?) predisporre una migliore definizione delle modalità di selezione delle iniziative e dei progetti di formazione e sviluppo e infine armonizzare il regime delle agevolazioni fiscali rispetto a quello di altre categorie di enti non profit (ci si riferisce alle Onlus?).
Infine, si ripropone la istituzione di una vera e propria Authority del Terzo Settore, come nel progetto Bobba. In mancanza di indicazioni anche solo sintetiche, non si può far altro che auspicare si tratti di un’Autorità davvero terza e indipendente, formata da personale di alta competenza e con dotazione patrimoniale adeguata, che abbia forti poteri di controllo e non solo di moral suasion sulle organizzazioni non profit e che si imponga come punto di riferimento concreto di un mondo che il legislatore intende riportare alla giusta dimensione, intraprendendo l’ambizioso progetto del Testo Unico / Codice degli enti non profit che coordini le numerose discipline esistenti, fiscali e civilistiche, oggetto di revisione. Tale razionalizzazione dovrebbe riportare la materia, sotto il profilo costituzionale, nell’ambito dei principi di sussidiarietà verticale ed orizzontale di cui all’articolo 118, 4°comma, Cost., con particolare riferimento a una nuova idea di servizi sociali, gestiti dallo Stato e degli enti locali in collaborazione con le organizzazioni non profit che saranno autorizzate e accreditate all’erogazione e gestione dei servizi in base a precisi requisiti da individuare.
Un esame a parte meritano i punti che trattano l’ormai celebre 5 x 1000 IRPEF. Di esso si parla come mezzo di stabilità e di ampliamento delle forme di sostegno economico pubblico e privato al Terzo Settore. Se ne prevede il potenziamento e ciò  dovrebbe farci immaginare che si realizzi, prima, la stabilizzazione che ancora manca e che sarebbe già potenziamento, unitamente all’abbattimento del tetto massimo di spesa (altro punto menzionato nelle linee guida).
La riforma prevede la revisione dell’ambito soggettivo, l’identificazione stabile dei beneficiari del 5x1000 che andranno inseriti in un elenco liberamente consultabile, con l’obbligo di pubblicazione dei bilanci secondo una schema standard; si prevede pure la possibilità di destinare anche il 5 x 1000 delle c.d. imposte sostitutive per i contribuenti minimi, finora esclusa. Infine, la semplificazione delle procedure di calcolo ed erogazione che oggi comportano due anni di attesa per gli aventi diritto.  
Tra i mezzi di stabilizzazione del sostegno economico al terzo settore sono inclusi anche i titoli di solidarietà di cui al D.Lgs. 460/97, l’estensione dell’equity crowdfunding, un voucher universale per i servizi alla persona e alla famiglia (c.d. secondo welfare, da definire), il riassetto dei vantaggi fiscali su imposte dirette e indirette a favore del terzo settore chiarendo finalmente il concetto di modalità non commerciale (proposito assai ambizioso … ci riusciranno senza far danni?), trattamento di favor fiscale per i titoli finanziari etici (da definire), nuove modalità di assegnazione in convenzione d’uso di immobili pubblici inutilizzati a soggetti non profit e infine la riforma dell’attuale meccanismo di destinazione e di assegnazione dei beni mobili e immobili confiscati alla criminalità, che dovrà coinvolgere maggiormente le organizzazioni non profit nella gestione di detti beni, nel quadro di iniziative di imprenditoria sociale.
Vincenzo Giarmoleo

Ultima modifica Mercoledì 16 Settembre 2015 15:20