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"All'alba, lo stretto" di Achille Fulfaro: recensione

Scritto da  Vincenzo Giarmoleo
Solo il nipote capisce lo zio / non c’è bisogno di dirtelo / Ah zio, zio … com’è, com’è / spiega la vita, spiega perché / spiegami tutto, spiega cos’è / e intanto tutto si srotola come di un film la pellicola (Paolo Conte , Lo zio).  Ho colto il senso di questi versi di Paolo Conte, misteriosi ed ermetici, solo dopo aver letto “All’alba, lo stretto” di Achille Fulfaro. 
Ma il racconto non vive della sola poesia della complicità, senz’altro speciale, tra zio e nipote. C’è molto di più. Per farsi un’idea di quanto l’autore sia in grado di pescare negli abissi emozionali tutta una serie di creature del fondo, dell’inconscio, del sogno mai rivelato o mai ascoltato, occorre chiudere gli occhi e lasciarsi attraversare da ondate e flutti che risalgono con impeto dalle profondità del mare riportando a galla relitti antichi, eppur nuovi, testimonianze fossili del nostro passato e del futuro essere uomini.
Sono un visionario vedo quello che non c’è / sogno una macchina che riavvolga il tempo ... e quello che non ricordo non lo vedo / come non c’è confine tra i deserti (Ivano Fossati, La bottega di filosofia). La visione qui è lo Stretto: un mare che sembra chiuso, quieto, familiare e che invece muta improvvisamente in tempesta, in magico e raro fenomeno ottico (la Fata Morgana), in luogo del miracolo (la traversata in mantello di San Francesco da Paola), in luogo del mito (Scilla e Cariddi), in testimone di eccezionali imprese (Ulisse contro le sirene, oppure zio Memmo che primeggia nella lotta contro le correnti impetuose per abbordare i bastimenti in cambio di un pacchetto di sigarette e sembra quasi un marino Don Chisciotte contro i mulini a vento).
C’è un quotidiano straordinario, sempre diverso e sorprendente che coesiste e si contrappone al quotidiano piatto e ordinario della periferia milanese, con la luce pallida del mattino che filtra dentro al tram diretto inesorabilmente in azienda, nei giorni bui e freddi dell’inverno di questo bel mare di Lombardia (Ivano Fossati, L’uomo coi capelli da ragazzo).
E’ contraddittorio il fatto che vicende di segno opposto, come due vite in una, appartengano allo stesso uomo? Forse è vero che la negazione del sé appartiene all’uomo non meno di quanto gli appartengano la libertà, il sogno e il lampo creativo. E’ la polarità, il magnetismo dell’essere, l’Yin e lo Yang della vita.
La storia di Zio Memmo è la sua personale, irripetibile storia, ma è anche la nostra storia di uomini del Sud sempre indotti - dalla necessità ma poi anche da vanità, ambizioni o insofferenza al perpetuarsi di certe nefandezze che pur ci appartengono come le grandi magìe di cui siamo capaci -  a migrare altrove. 
Ma se c’è un altrove, per gli uomini, c’è anche una memoria. E sapete chi era Mnemon? L’assistente di Achille durante la Guerra di Troia, che aveva il compito di ricordagli le necessità divine, il cui oblio gli avrebbe causato disgrazie o morte … 
E dove c’è un memoria, c’è un ritorno, alla terra dei padri. Eppure accade persino di migrare all’incontrario, come Giuseppe Berto, grande scrittore veneto, autore de Il male oscuro e il cielo è rosso, capolavori letterari del ‘900. Ebbene, Berto decise di trascorrere gli ultimi anni della sua vita a Capo Vaticano, in esilio volontario: lui, dalla terra dei padri fuggiva - o forse fuggiva dal padre, già morto, per poi rivedersi, come lui, vecchio, a trascinare secchi colmi d’acqua nella sua casa di campagna … in Veneto o in Calabria? -  
E’ strano mai per noi, sai, tutto l’infinito / finisce qui (Vasco Rossi, La noia) . Noi ricordiamo, adesso, anche grazie al racconto di Achille Fulfaro, quasi tutto e forse, un giorno, ritorneremo. Per poi ripartire, fuggire ancora?
Ultima modifica Mercoledì 16 Settembre 2015 16:19
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