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Costi civili e dignità

Scritto da  Vincenzo Giarmoleo

Mi pare che parola chiave, dopo i fatti di venerdì 19 febbraio 2015 a Roma, sia “dignità”.

Una rapida ricerca etimologica rivela che questa parola, spesso pronunziata senza consapevolezza, assomma al più noto nobiltà morale in cui l’uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a sé stesso - il meno noto significato, di derivazione greca, di assioma, principio filosofico cardine, postulato. Secondo l’Enciclopedia Treccani, con quest’ultima accezione, il termine é più noto nella variante degnità, per l’uso fattone da Giambattista Vico, filosofo, storico e giurista italiano vissuto a cavallo di due secoli: seicento e settecento. Questo non meno importante significato aiuta a risalire al nucleo del concetto di dignità, che é in relazione con l’innato, con il dato presupposto, con ciò che è considerato - a prescindere dalla condizione economica, sociale e culturale – comune ma anche dovuto a tutti gli uomini, principio che comporta profondo rispetto, perché qualità intimamente posseduta da tutti gli esseri umani in quanto tali e perché connessa all’elemento spirituale.

In questo senso sta la sacralità della dignità, la sua irrinunciabilità e il necessario cadere / stare insieme con la qualità di essere umano, perché umanità e dignità, se riferite al singolo individuo, simul stabunt simul cadunt. Se questo è un uomo, scriveva Primo Levi: è davvero un uomo, l’essere umano ridotto alla mera sopravvivenza, privato della libertà, del pudore, dell’energia vitale, del cibo e della speranza, umiliato e deriso, proprio in quanto uomo, da altri uomini?

Queste riflessioni ne inducono altre, sempre riferite agli eventi di venerdì 19 febbraio. C’è stata, insieme all’offesa alla dignità di una città e dei suoi uomini / cittadini, la ferita, la violazione dell’elemento fisico, architettonico e culturale della città, che potremmo sintetizzare come offesa al bello. Abbiamo spesso riflettuto sulla profonda connessione tra bello e buono, tra estetica ed etica che paiono legate tra loro e che sviluppano processi osmotici nelle vite e nelle coscienze, e non ci dilungheremo su questo aspetto, seppure importante. La civiltà implica capacità di salvare il bello, di rispettare e assecondare il desiderio di plasmare la realtà estraendone, come minatori, ciò che consideriamo prezioso e durevole e che, pertanto, val la pena conservare. Da qui nasce l’idea di patrimonio artistico e culturale e il diritto/dovere di tutelarlo e promuoverlo. Ma anche queste parole, cristallizzate nell’articolo 9 della Costituzione Italiana, sembrano ormai vuote formule da ripetere meccanicamente, senza convinzione. Forse servirà cambiarle, le parole, per tentare di cambiare la realtà. Ma per cambiarle in un senso intelligibile e trasformarle in azione, occorre ritornare al significato etimologico; la ricerca del vero è ricerca lessicale, filologica, semantica.

Qui preme invece dire che il bello come valore, nella società neutra, liquida, diviene valore di facciata (face value), pura forma e sembra persino scomparire, inabissarsi, sprofondare nel nulla. Basta chiedere un risarcimento dei danni, basta scambiarsi accuse di inefficienza, di mancato o tardivo intervento, di mancata prevenzione: insomma … basta indignarsi. C’è il rischio, allora, che la dignità, valore irrinunciabile connesso all’umanità, sia scambiata per un più fugace e superficiale sentimento, che la contiene solo in apparenza: l’indignazione.

Indignato è colui che mostra disapprovazione di fronte alla violenza becera di un gruppo di facinorosi ubriachi. Indignato e impettito è il piccione, padrone a Piazza San Marco o a Trinità dei Monti, quando il fotografo, non sempre o non più giapponese, lo immortala. Indignato è il pubblico ministero, autore di numerose e clamorose indagini finite in altrettanti buchi nell’acqua, a spese del contribuente, che alla domanda di una giornalista sulla qualità primaria che deve possedere un magistrato, risponde: la capacità di indignarsi. Mi avevano insegnato che detta qualità dovesse essere l’imparziale, esatta e logica applicazione del diritto, secondo canoni stabiliti dalla legge stessa. E’ dunque cambiato qualcosa, in questi ultimi venticinque anni?

Altrettanta sacralità e rispetto merita, in un consesso organizzato, complesso e difficile da gestire come la società iper ecnologica contemporanea, il tempo della vita, il tempo delle persone. Ha ancora senso muovere apparati macchinosi, ingombranti sino al limite della paralisi civile, come quelli dell’ordine pubblico (furgoni cellulari, bus scortati, elicotteri, brigate celeri e motorizzate, etc.) per garantire la sicurezza messa a repentaglio da un match di calcio, seppur di rilevo internazionale, spesso, come in questo caso, senza ottenere il minimo risultato? Il costo di tale paralisi civile (fermo totale, per ore, del lavoro e della vita di centinaia di migliaia di cittadini, bloccati dalla macchina dell’ordine pubblico, in una città come Roma, che già in condizioni normali è in perenne crisi di mobilità), la lesione alla libertà di circolazione dei cittadini, è calcolabile? Se lo è, come lo è senz’altro, va messo sulla bilancia dei costi sociali: dall’altra parte, si dovrà considerare e pesare, soltanto, il costo della mancata partecipazione all’evento di truppe di pseudo tifosi che oltretutto, proprio per ragioni di ordine pubblico (sic!) sono poi ammesse ad assistere allo spettacolo sportivo senza pagare il biglietto. Vogliamo ragionare seriamente su questi paradossi?

Altrimenti, di questo passo, il tragico diventerà rapidamente comico, e tutti a ridere senza riflettere sulle conseguenze della mancata metabolizzazione del tragico. La situazione è grave ma non è seria (E. Flaiano). Ma la tragedia è rappresentazione del male e serve anche a esorcizzarlo, a renderlo in qualche modo accettabile, in quanto parte della vita. Se si trasforma subito in commedia, viene a mancare il tempo fisiologico per elaborare il dato, il più banale dei dati: l’uomo è anche cattivo, agisce per il male, usa la violenza.

Una certa quantità di violenza, controllata e dosata, in una società sana, deve essere accettata, in parte avallata, senz’altro esercitata. Non certo la violenza becera e ignobile perpetrata da un plotone di ubriaconi forestieri che non sanno da dove vengono (un paese altamente civile, l’Olanda, con frange di popolazione evidentemente ancora in condizioni di emarginazione) e dove sono (nella patria - insieme alla Grecia - del pensiero, dell’arte e della civiltà occidentale) bensì quella gestita dall’autorità locale o statale di pubblica sicurezza che questo potere di utilizzo della violenza, a titolo di sanzione o di prevenzione, deve maneggiare con cura assumendo sempre la responsabilità per le conseguenze. Un quantum di violenza, controllata e dosata, in una società sana, deve essere accettato dal cittadino convinto, in piena coscienza, che le mani alle quali l’ha affidata, delegata o rimessa, non ne faranno abuso. Senza questo patto, non esiste legge, né sicurezza sociale, né tutela dei diritti. Non serve a nulla protestare, inveire, manifestare o dissertare di diritti e giustizia, se non si accettano questi costi civili.

Dovremmo chiederci, dunque, se siamo ancora in grado di accettare l’affidamento al potere costituito dell’esercizio - sempreché soggetto al vaglio di contropoteri - della violenza di legge. Affidamento che, è vero, ammettiamolo: più di qualche volta diventa abuso, sopraffazione, ma è una conseguenza inevitabile talvolta, sono le regole del gioco, che credevamo? Le società umane funzionano così. Sull’assiologia di riferimento e sull’etologia della società delle formiche, indagheremo meglio. Se non siamo più in grado di accettare i costi di questo patto, non resta che l’autotutela, far west del diritto, oppure l’anarchia. Sono opzioni da esaminare, per carità. Ma va detto con chiarezza: queste opzioni implicano tassi di violenza molto più elevati e costi sociali molto più ingenti di quelli connessi al patto sociale vigente.

Persino la vendetta può diventare opzione alternativa alla giustizia - non é forse una antica legge, quella dell’occhio per occhio, dente per dente? - quando la giustizia amministrata diventa sterile,  costosa e logorante attesa di un esito che arriva troppo tardi, quando le parti in causa sono altrove.

Vogliamo domandarci, di nuovo, che cosa sia questo benedetto patto sociale, quali regole e quali rinunzie comporti, se siamo ancora in grado di assorbire, in cambio di protezione e sicurezza sociale, l’errore, la deviazione, l’eccezione? Se non lo siamo più, prendiamoci la responsabilità di immaginare e promuovere un’alternativa gestibile del binomio ordine / disordine. Prima, però, cristianamente riprendiamo la frusta che Gesù, duemila anni fa, fece schioccare con autorevolezza e cacciamo via i mercanti dal Tempio, una volta per tutte.

Col rischio - a costo - di cacciar via uno dei nostri, magari un familiare o un amico. 

Ultima modifica Mercoledì 16 Settembre 2015 15:46
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