La cura

Scritto da  Vincenzo Giarmoleo

Ognuno fa i conti con la propria solitudine.
La solitudine ignorata, sommersa, poi emergente, avvistata ma ancora lontana e inafferrabile. La solitudine contattata, avvicinata, timidamente sfiorata e accomodata.
La solitudine sospirata, poi inspirata, profondamente respirata, consumata e metabolizzata. La solitudine temuta e poi desiderata, amata e poi lasciata, abbandonata a se stessa, ripudiata.
La solitudine compresa, ripresa, masticata, ruminata, smembrata, scomposta e ricomposta, per gioco o per rabbia, organizzata.
Ognuno ha bisogno di conservare per sé, di sé, la solitudine come condizione di vita, la solitudine degli affetti, del corpo e dell’anima, degli odori e dei sapori conosciuti e ricordati, la solitudine vissuta interiormente e gelosamente custodita.
Moriremo con la nostra solitudine? Nella solitudine? Per la solitudine? Di solitudine? E dopo? Ci sarà una solitudine migliore? Accettata, felice, consapevole, viva e vera, simpatica o empatica, ammiccante e sorridente, una solitudine che ride, che si diverte e sghignazza insieme a noi, che fa delle nostre miserie una religione, un mito personale, una realtà che si tiene a bada, come un cane fedele? Forse. Perché se resterà, dopo la morte, una qualche solitudine a farci compagnia, allora saremo davvero uomini e donne, per sempre e immutabilmente.

Ultima modifica Mercoledì 16 Settembre 2015 16:07
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