di Vincenzo Giarmoleo
Lo scenario è suggestivo: uno splendido grand hotel con spa, in Germania, che si affaccia su un mare nordico, grigio e ventoso. E un lungo molo, di fronte alla spiaggia dell’hotel, che rimanda al pensiero di un approdo, quale che sia. In questo luogo invernale e freddo si svolgerà un vertice economico mondiale degli otto ministri dell’economia dei paesi avanzati, presieduto dal Direttore del Fondo Monetario Internazionale (Daniel Roché, interpretato magistralmente da Daniel Auteil). Proprio il Direttore del FMI, tuttavia, ha voluto che a questo vertice fossero presenti, su suo invito, tre ospiti inconsueti: una rock star politicamente impegnata per la riduzione del debito dei paesi poveri, una scrittrice di successo di libri per bambini (Connie Nielsen nei panni di Claire Seth) e un monaco certosino italiano, Roberto Salus (Toni Servillo).
Il credo di Roché è riassunto – almeno fino a quel punto della sua vita (la cena di accoglienza / festa di compleanno) dalla motivazione dell’invito dei tre intrusi, rivelata – su domanda espressa della rock star - dal ministro canadese: “Stiamo defraudando il mondo della speranza. Potremmo almeno restituirgli qualche illusione” avrebbe confidato Daniel alla bella canadese.
Il cinema (come anche la letteratura) mette spesso in scena storie che pescano nell’inverosimile, e realizzandole - dunque portandole fuori dall’immaginazione dell’autore - le rende verosimili, credibili e, per meglio dire, inverabili, vale a dire possibili, suscettibili di diventare realtà storica. E’ questo il caso de “Le confessioni” e della strana ma affascinante vicenda che si svolge tutta all’interno dell’hotel che ospita il G8.
All’inconsueta e stravagante confessione notturna del Direttore del FMI al cospetto del monaco Salus, appositamente convocato – ma più che confessione, in mancanza d’una assoluzione finale, parlerei di rivelazione, diretta a realizzare un preciso obiettivo – fa seguito il suicidio di questi, per auto soffocamento, nella sua stanza dell’hotel. La notizia del suicidio ha un dirompente effetto sui ministri presenti e il vertice ne risulterà fortemente condizionato. La paura di sconvolgenti rivelazioni, ipoteticamente trasmesse al monaco Roberto Salus dal Direttore del FMI ma protette dal segreto confessionale, agita politici e banchieri e finirà col metterli di fronte alle loro responsabilità, morali e politiche, alla crudezza delle proprie scelte.
Prima che i media arrivino al vertice, nel weekend che separa dal lunedì successivo, inizia un’accurata indagine interna sul presunto suicidio del Direttore del FMI ma soprattutto sul contenuto delle sue dichiarazioni al monaco certosino Roberto Salus, indagine che coinvolge gli apparati di sicurezza, presenti all’interno dell’hotel. Il monaco, doppiamente votato al silenzio sia per regola del proprio ordine monastico, sia per aver ricevuto una confessione, è sottoposto a pressioni sia da parte dei singoli ministri, sia da parte della sicurezza; ma la sua fermezza e soprattutto la sua statura morale gli consentono di resistere a minacce e pressioni, mettendo a nudo i politici e gli altri personaggi presenti al vertice e le rispettive contraddizioni. L’indagine, così, ribaltandosi da indagatore a indagato, diventa psicodramma, e scatena meccanismi imprevisti, sensi di colpa e moti di coscienza inattesi, soprattutto in due dei personaggi politici presenti, il ministro canadese (non a caso, una donna) e l’italiano Antonio Vallati (un buon Pierfrancesco Favino).
In tal modo, le decisioni che i ministri dell’economia stavano per avallare, più che assumere, succubi dei potenti grandi finanzieri e banchieri, e che avrebbero messo in ginocchio paesi ed economie già in crisi, saranno, a seguito e per effetto del dissenso in fine manifestato dai due ministri pentiti, rimandate sine die, per mancata formazione dell’unanimità in seno all’alto consesso.
Un piccolo ma significativo riscatto della politica - non è poi quello che si chiede, oggi, ai nostri rappresentanti in seno alle Istituzioni? – rispetto al dominio dell’Economia e delle sue formule vuote e arbitrarie, come quella che, significativamente, all’inizio del film, viene scritta dal Direttore del FMI e poi mostrata – come panacea o come cibo per gli avvoltoi - dal monaco ex matematico Roberto Salus, come se fosse la rivelazione finale del segreto, la soluzione del dilemma.
Ma le citazioni di J. M. Keynes – dell’economia come scienza morale - fatte proprio nel corso della cena di accoglienza del vertice dal Direttore Roché, insieme alle altre dotte citazioni di Pascal, di Sant’Agostino (il titolo del film è anche un omaggio alla celeberrima opera del Santo di Ippona?) e di altri grandi filosofi e pensatori, fatte per bocca di Roberto Salus, paiono di scuola e persino superflue e in ogni caso poco dicono rispetto a certe folgoranti risposte che il monaco - personaggio apparentemente misterioso ma in realtà profondamente vero nella sua coerenza di pensiero e azione - con studiata semplicità fornisce ai suoi interlocutori, durante i rispettivi “dialoghi confessionali”. A chi gli chiede che rapporto abbia il buon Dio con le guerre, con i disastri naturali e con quelli umani, con il dolore e con la disperazione che da sempre accompagnano l’esperienza umana, egli replica semplicemente dicendo che “il male non ha alcuna utilità”, e così sgombra il campo da ogni tentativo di addossare a Dio responsabilità esclusive degli uomini, la cui libertà spesso è esercitata non per il bene comune, ma soltanto in nome del bene comune, avendo come fine esclusivo l’egoistico profitto di certi manipolatori, a danno di tutti gli altri uomini, e dunque, in sostanza, per il male.
Al Direttore Daniel Roché, che afferma orgogliosamente di non aver mai “perso tempo”, Salus sorride con benevolenza e replica che “perdere tempo non ha mai fatto male a nessuno”. E’ una risposta apparentemente banale, ma che rimanda a millenni di pensiero ascetico, di preghiera, di spiritualità manifestata attraverso la pura contemplazione del creato.
Un monaco, dunque, che scegliendo il silenzio decide di non partecipare direttamente alle vicende umane, di non incidere nella realtà, pur non volendo inciderà profondamente sulle vicende mondiali più di quanto egli stesso si aspetterebbe e soprattutto più di coloro che questa capacità incisiva dovrebbero esercitare per il bene della comunità. E’ questo il paradosso della storia che ci è stata raccontata con grazia e precisione, impietosamente.
Il rischio, semmai, è noto: che la figura del protagonista de “Le confessioni”, sia ascritta frettolosamente al cielo delle più grandi e alte figure umane e che per questo sia considerata irraggiungibile, troppo morale o troppo verticale rispetto alla mediocritas dei tempi nostri, e quindi relegata all’estremo, all’impraticabile, all’esempio eroico e virtuoso che invece di generare emulazione, viene strumentalizzato, relegandolo nell’ambito dell’impossibile, dell’inimitabile (don’t try this at home!...non fa per voi). “Io non posseggo nulla se non questa tunica e il silenzio che nessuno può comprare”, dice Salus. Chi, di noi, potrebbe dire altrettanto di se stesso? E siccome ad impossibilia nemo tenetur … ci si potrà ancora tranquillamente crogiolare nel comodo cinismo dei furbi e degli arroganti, di coloro che danno dell’ idealista a chi di idee vive ma non vegeta, e che magari per un’idea - non astratta, e neppure un’ideologia - ma per una idea (non immagine) di sé, degli altri e del mondo stesso - sia disposto a patire, fino all’estremo. L’estremo, però, è ciò che non vogliamo, perché nei limiti dell’umano, del buon agire pratico e della utilità del bene dobbiamo restare, se qualcosa vogliamo cogliere del senso di questa pellicola.
Ci è piaciuta pure, perché dipinta con pochi tratti agili e decisi, la figura del vecchio Direttore dell’Hotel, che si scopre, alla fine, malato soltanto immaginario di Alzheimer, aver custodito in silente cura e complicità il segreto del registratore di Salus, e con esso la sua gentile passione per la bellezza e varietà del canto di ogni specie di uccello. Il monaco indica, dunque, la bellezza come soluzione etica e non - come sembrerebbe a prima vista – vuol canzonare i suoi pressanti interlocutori quando disegna su un foglio di carta i due uccelli, uno dei quali, raro come il suo cinguettio, volerà sopra le teste dei potenti riunite per il funerale del Direttore del FMI, dinanzi al mare dell’hotel.
“Quanno ncielo n’angiulillo nun fa chello c’ha da fà, o Signore int’a na cella scura o’ fà nzerrà”. L’angelo - punito dal Signore se non agisce quando deve – finisce prigioniero come un uccellino in cattività. E’ una massima che Salus pronuncia in apertura del film, il cui significato sarà chiarito al termine della vicenda.
Il reale è forse come il cane ribattezzato Bernardo da Roberto Salus dopo averlo addomesticato – la cui ferocia è tale per chi teme la verità - i politici nella sala rotonda - ma diviene semplicemente mansuetudine quando la verità è rispettata, non temuta. Ma per rispettare la verità, e con essa la realtà anche umana, occorre accoglierla con benevolenza e non manipolarla, né piegarla ai propri fini.
Giovedì 14 aprile 2016, presso la Fondazione Fulvio Croce dell'Avvocatura torinese ha avuto luogo la conferenza dal titolo "Porzia nel Mercante di Venezia: Giustizia o vendetta?" ideata e realizzata dall'avvocato Vincenzo Giarmoleo con l'autorevole contributo del prof. Arturo Cattaneo, Ordinario di Letteratura Inglese presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
"L'Antigone: riflessioni su diritto e giustizia, ruolo e deontologia dell'avvocato nella società liquida"
Torino, Fondazione Fluvio Croce dell'Avvocatura torinese
10 dicembre 2015, ore 18,30
Via Santa Maria, 1 - Torino
Idea, cura, e commento dell'avv. Vincenzo Giarmoleo
Antigone di Sofocle: diritto, legge e giustizia - Conferenza tenuta al Liceo Classico Tommaso Campanella di Reggio Calabria 20.3.2015
Mi pare che parola chiave, dopo i fatti di venerdì 19 febbraio 2015 a Roma, sia “dignità”.
Una rapida ricerca etimologica rivela che questa parola, spesso pronunziata senza consapevolezza, assomma al più noto nobiltà morale in cui l’uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a sé stesso - il meno noto significato, di derivazione greca, di assioma, principio filosofico cardine, postulato. Secondo l’Enciclopedia Treccani, con quest’ultima accezione, il termine é più noto nella variante degnità, per l’uso fattone da Giambattista Vico, filosofo, storico e giurista italiano vissuto a cavallo di due secoli: seicento e settecento. Questo non meno importante significato aiuta a risalire al nucleo del concetto di dignità, che é in relazione con l’innato, con il dato presupposto, con ciò che è considerato - a prescindere dalla condizione economica, sociale e culturale – comune ma anche dovuto a tutti gli uomini, principio che comporta profondo rispetto, perché qualità intimamente posseduta da tutti gli esseri umani in quanto tali e perché connessa all’elemento spirituale.
In questo senso sta la sacralità della dignità, la sua irrinunciabilità e il necessario cadere / stare insieme con la qualità di essere umano, perché umanità e dignità, se riferite al singolo individuo, simul stabunt simul cadunt. Se questo è un uomo, scriveva Primo Levi: è davvero un uomo, l’essere umano ridotto alla mera sopravvivenza, privato della libertà, del pudore, dell’energia vitale, del cibo e della speranza, umiliato e deriso, proprio in quanto uomo, da altri uomini?
Queste riflessioni ne inducono altre, sempre riferite agli eventi di venerdì 19 febbraio. C’è stata, insieme all’offesa alla dignità di una città e dei suoi uomini / cittadini, la ferita, la violazione dell’elemento fisico, architettonico e culturale della città, che potremmo sintetizzare come offesa al bello. Abbiamo spesso riflettuto sulla profonda connessione tra bello e buono, tra estetica ed etica che paiono legate tra loro e che sviluppano processi osmotici nelle vite e nelle coscienze, e non ci dilungheremo su questo aspetto, seppure importante. La civiltà implica capacità di salvare il bello, di rispettare e assecondare il desiderio di plasmare la realtà estraendone, come minatori, ciò che consideriamo prezioso e durevole e che, pertanto, val la pena conservare. Da qui nasce l’idea di patrimonio artistico e culturale e il diritto/dovere di tutelarlo e promuoverlo. Ma anche queste parole, cristallizzate nell’articolo 9 della Costituzione Italiana, sembrano ormai vuote formule da ripetere meccanicamente, senza convinzione. Forse servirà cambiarle, le parole, per tentare di cambiare la realtà. Ma per cambiarle in un senso intelligibile e trasformarle in azione, occorre ritornare al significato etimologico; la ricerca del vero è ricerca lessicale, filologica, semantica.
Qui preme invece dire che il bello come valore, nella società neutra, liquida, diviene valore di facciata (face value), pura forma e sembra persino scomparire, inabissarsi, sprofondare nel nulla. Basta chiedere un risarcimento dei danni, basta scambiarsi accuse di inefficienza, di mancato o tardivo intervento, di mancata prevenzione: insomma … basta indignarsi. C’è il rischio, allora, che la dignità, valore irrinunciabile connesso all’umanità, sia scambiata per un più fugace e superficiale sentimento, che la contiene solo in apparenza: l’indignazione.
Indignato è colui che mostra disapprovazione di fronte alla violenza becera di un gruppo di facinorosi ubriachi. Indignato e impettito è il piccione, padrone a Piazza San Marco o a Trinità dei Monti, quando il fotografo, non sempre o non più giapponese, lo immortala. Indignato è il pubblico ministero, autore di numerose e clamorose indagini finite in altrettanti buchi nell’acqua, a spese del contribuente, che alla domanda di una giornalista sulla qualità primaria che deve possedere un magistrato, risponde: la capacità di indignarsi. Mi avevano insegnato che detta qualità dovesse essere l’imparziale, esatta e logica applicazione del diritto, secondo canoni stabiliti dalla legge stessa. E’ dunque cambiato qualcosa, in questi ultimi venticinque anni?
Altrettanta sacralità e rispetto merita, in un consesso organizzato, complesso e difficile da gestire come la società iper ecnologica contemporanea, il tempo della vita, il tempo delle persone. Ha ancora senso muovere apparati macchinosi, ingombranti sino al limite della paralisi civile, come quelli dell’ordine pubblico (furgoni cellulari, bus scortati, elicotteri, brigate celeri e motorizzate, etc.) per garantire la sicurezza messa a repentaglio da un match di calcio, seppur di rilevo internazionale, spesso, come in questo caso, senza ottenere il minimo risultato? Il costo di tale paralisi civile (fermo totale, per ore, del lavoro e della vita di centinaia di migliaia di cittadini, bloccati dalla macchina dell’ordine pubblico, in una città come Roma, che già in condizioni normali è in perenne crisi di mobilità), la lesione alla libertà di circolazione dei cittadini, è calcolabile? Se lo è, come lo è senz’altro, va messo sulla bilancia dei costi sociali: dall’altra parte, si dovrà considerare e pesare, soltanto, il costo della mancata partecipazione all’evento di truppe di pseudo tifosi che oltretutto, proprio per ragioni di ordine pubblico (sic!) sono poi ammesse ad assistere allo spettacolo sportivo senza pagare il biglietto. Vogliamo ragionare seriamente su questi paradossi?
Altrimenti, di questo passo, il tragico diventerà rapidamente comico, e tutti a ridere senza riflettere sulle conseguenze della mancata metabolizzazione del tragico. La situazione è grave ma non è seria (E. Flaiano). Ma la tragedia è rappresentazione del male e serve anche a esorcizzarlo, a renderlo in qualche modo accettabile, in quanto parte della vita. Se si trasforma subito in commedia, viene a mancare il tempo fisiologico per elaborare il dato, il più banale dei dati: l’uomo è anche cattivo, agisce per il male, usa la violenza.
Una certa quantità di violenza, controllata e dosata, in una società sana, deve essere accettata, in parte avallata, senz’altro esercitata. Non certo la violenza becera e ignobile perpetrata da un plotone di ubriaconi forestieri che non sanno da dove vengono (un paese altamente civile, l’Olanda, con frange di popolazione evidentemente ancora in condizioni di emarginazione) e dove sono (nella patria - insieme alla Grecia - del pensiero, dell’arte e della civiltà occidentale) bensì quella gestita dall’autorità locale o statale di pubblica sicurezza che questo potere di utilizzo della violenza, a titolo di sanzione o di prevenzione, deve maneggiare con cura assumendo sempre la responsabilità per le conseguenze. Un quantum di violenza, controllata e dosata, in una società sana, deve essere accettato dal cittadino convinto, in piena coscienza, che le mani alle quali l’ha affidata, delegata o rimessa, non ne faranno abuso. Senza questo patto, non esiste legge, né sicurezza sociale, né tutela dei diritti. Non serve a nulla protestare, inveire, manifestare o dissertare di diritti e giustizia, se non si accettano questi costi civili.
Dovremmo chiederci, dunque, se siamo ancora in grado di accettare l’affidamento al potere costituito dell’esercizio - sempreché soggetto al vaglio di contropoteri - della violenza di legge. Affidamento che, è vero, ammettiamolo: più di qualche volta diventa abuso, sopraffazione, ma è una conseguenza inevitabile talvolta, sono le regole del gioco, che credevamo? Le società umane funzionano così. Sull’assiologia di riferimento e sull’etologia della società delle formiche, indagheremo meglio. Se non siamo più in grado di accettare i costi di questo patto, non resta che l’autotutela, far west del diritto, oppure l’anarchia. Sono opzioni da esaminare, per carità. Ma va detto con chiarezza: queste opzioni implicano tassi di violenza molto più elevati e costi sociali molto più ingenti di quelli connessi al patto sociale vigente.
Persino la vendetta può diventare opzione alternativa alla giustizia - non é forse una antica legge, quella dell’occhio per occhio, dente per dente? - quando la giustizia amministrata diventa sterile, costosa e logorante attesa di un esito che arriva troppo tardi, quando le parti in causa sono altrove.
Vogliamo domandarci, di nuovo, che cosa sia questo benedetto patto sociale, quali regole e quali rinunzie comporti, se siamo ancora in grado di assorbire, in cambio di protezione e sicurezza sociale, l’errore, la deviazione, l’eccezione? Se non lo siamo più, prendiamoci la responsabilità di immaginare e promuovere un’alternativa gestibile del binomio ordine / disordine. Prima, però, cristianamente riprendiamo la frusta che Gesù, duemila anni fa, fece schioccare con autorevolezza e cacciamo via i mercanti dal Tempio, una volta per tutte.
Col rischio - a costo - di cacciar via uno dei nostri, magari un familiare o un amico.
Da avvocato, ma ancor prima da uomo che continua, senza redenzione né remissione, a rivendicare un minimo spazio di autonomia per provare a far muovere la propria di libertà di pensiero, rifuggo dalla tentazione aberrante, ma sempre più diffusa, di ridurre ogni articolazione di pensiero critico a computa di diritti e doveri, formulazione di regole e di gerarchie, generazione di cause ed effetti, risoluzione di dispute tra coloro che sostengono un interesse assunto come dominante, e quegli altri che difendono l’interesse opposto e confliggente, assunto come servente. Insomma, alla giuridicizzazione della vita e di ogni aspetto dell’esistenza.
Questa nostra epoca dei social media, apparentemente svuotata di ogni ideologia, fa sì che ciò che fermamente si nega, come il pensiero ideologico, riemerga con prepotenza sotto forma di pensiero dominante e di condotta politicamente, socialmente - e a questo punto moralmente - ortodossa, strisciante etichetta post borghese (n/et/iquette) in grado di produrre cieca e silente assuefazione ma ancor più avversione, o più spesso violenta invettiva, nei confronti di ogni pronunzia o verbo dissidente, a prescindere dall’articolazione del pensiero, dall’autorevolezza del suo autore, dalla ragionevolezza, dall’adeguatezza al contesto e pure, talvolta, dall’umanità delle conclusioni tratte.
La ragione senza emozione e quella fintamente empatica, che giustificano ogni aggressione, hanno ridotto il secolo scorso, forse il peggiore della storia umana, a una mera successione di nefandezze e aberrazioni delittuose, prima nel pensiero e poi nell’azione. Il crimine di guerra - esempio di giuridicizzazione dell’antigiuridico o del pre-giuridico che sta a fondamento di ogni diritto, che é la guerra vinta, portatrice di nuovi accordi di convivenza sociale, e non la pace senza difesa, da sempre schiava dei forti - né è il prodotto esemplare perché auto assolvente e ipocritamente offerto come panacea a vinti e vincitori (per svuotare dal senso di colpa collettivo, i primi e per esimere dal dovere di fare i conti con clemenza e perdono e dal dovere di tentare la paziente ricostruzione dei rapporti tra i popoli, sulla base di consapevoli reciprocità, i secondi).
La condanna al giogo che ne deriva non é neppure più (politicamente ed ideologicamente) giustificata dal dio mercato, dal dio profitto, dal dio classe o dal dio razza. E’ sentenza inappellabile e insindacabile di una élite di comando, sedicente morale, che assume insieme funzioni di governo e di giudizio, in barba alla separazione dei poteri, e ch enon ammette contraddittorio, pena la reiezione dal modello umano scelto e l’allontanamento dal pubblico palcoscenico. E’ una perpetua Norimberga, ma senza più vinti e vincitori, criminali e vittime, in un caotico gioco delle parti, scambio di ruoli, casuale via vai di personaggi in cerca d’autore, comparse, protagonisti, rappresentazioni senza più trame, senza testa e senza coda. Un siffatto mostro, da dove lo afferri?
La frammentazione degli interessi e la coagulazione dei microinteressi a sfavore dei macro gruppi, delle macro-idee e dei macro sistemi, ha generato un processo di disarticolazione e di parcellizzazione del senso del bene collettivo, del bene comune, persino del bene patrio (in quanto appartenente ai padri e ai figli), sino a ridurlo a una dilatazione dell’io di ognuno: il fine del gruppo diventa il fine del singolo, dilatato in modo ipertrofico e svuotato di contenuto, di appartenenza, di comunanza e infine, anche di umanità.
Ogni evento delittuoso e luttuoso per l’uomo, tutto ciò che offende la vita la natura e dunque il comune e l’appartenente a tutti, come la terra e lo spirito umano, sembra essere, in effetti, avallato dalla moltitudine umana non pensante (e ancor più da quella sedicente pensante), avvinta e sedotta dall’assurda e infondata convinzione dell’ineluttabilità di ogni accadimento, della cronaca e della storia, senza che questo magmatico, falso movimento di pensiero generato dalle umane storie e dagli umani giudizi, così ben filtrato da mass media e social media, possa avere un contenimento o un indirizzo, e qualora lo possa avere, senza che la sua guida possa esser concepita e realizzata altrimenti che in termini di oppressione, di controllo delle menti e delle azioni, generando un processo di remissione dei popoli e dei loro falsi rappresentanti o sovrani, così come dei loro tribuni e retori, finti oppositori.
La Legge di stabilità 2015 (L.23.12.2014 n.190) ha introdotto alcune novità per gli enti non profit. Ecco le tre maggiori:
1) La prima è senz'altro positiva: l’articolo 1, commi 137 e 138, della L.190/2014, che modifica gli articoli 15, comma 1.1, e 100, comma 2, lettera h) del TUIR (DPR 917/86) introduce le seguenti modifiche in materia di agevolazioni per le erogazioni in denaro di persone fisiche e aziende, detraibili al 26%, fatte a favore delle ONLUS. E’ previsto un incremento da Euro 2.065 a Eu. 30.000,00 dell’importo massimo per il quale spetta la detrazione IRPEF/IRES sulle erogazioni liberali in denaro effettuate a favore delle ONLUS e dei soggetti che svolgono attività umanitarie.
Viene aumentato a Eu. 30.000 anche il limite dell’ammontare complessivo deducibile (il famoso tetto) ai sensi dell’articolo 100, 2° comma, lettera h), TUIR per le erogazioni liberali.
Tale norma rileva non soltanto per i soggetti IRES, ma anche, ai fini IRPEF, per imprenditori individuali e società di persone commerciali.
2) La seconda novità, in materia di tassazione degli utili percepiti dagli enti non commerciali, è fortemente penalizzante per il non profit, sopratutto per fondazioni bancarie e, indirettamente, anche per le organizzazioni di volontariato.
L’articolo 1, commi 655 e 656, L.190/2014, aumenta retroattivamente la tassazione su utili e dividendi percepiti dagli enti non commerciali a partire dall’1/1/2014. Viene fortemente ridotta l’esenzione d’imposta dalla percentuale del 95% degli utili percepiti al 22,26%; gli utili distribuiti dal 1/1/2014 diventano, quindi, imponibili al 77,24%.
Detta disposizione è diretta ad allineare, in tema di imposizione fiscale sugli utili, il trattamento degli enti non commerciali a quello delle persone fisiche non imprenditrici, proprietarie di una partecipazione qualificata, che devono tassare l’utile con l’aliquota marginale IRPEF del 43%. La ratio di tale equiparazione non è chiara: mentre, infatti, le persone fisiche che realizzano utili e dividendi possono impiegarli per finalità diverse, gli utili e i dividendi percepiti da gran parte degli enti non profit vengono reinvestiti per realizzare le finalità istituzionali, restituendo pertanto alla collettività, il surplus.
Viene contestualmente riconosciuto un credito d’imposta pari alla maggiore IRES dovuta dagli enti, nel solo periodo d’imposta in corso al 1/1/2014, in applicazione della disposizione introdotta retroattivamente. Detto credito potrà essere utilizzato esclusivamente in compensazione, senza altro limite quantitativo, a decorrere dal 1/1/2016, per 3 anni, nella misura del 33,33% annuo.
3) la terza novità, in materia di 5 per mille IRPEF, è stata introdotta dall’articolo 1, comma 154, L.190/2014. La facoltà di destinare la quota del 5 per mille IRPEF in base alla scelta del contribuente si applica anche relativamente all’esercizio finanziario 2015 e ai successivi, con riferimento alle dichiarazioni dei redditi dell’annualità precedente.
Dopo numerose proroghe, dal 2015 la destinazione del 5 per mille viene messa a regime. Vengono anche definite le modalità di redazione del rendiconto di destinazione delle somme ricevute dai soggetti beneficiari e le modalità di pubblicazione sui siti internet delle amministrazioni eroganti, dei rendiconti stessi. Soprattutto, si autorizza la spesa di Eu. 500 milioni annui, a decorrere dal 2015, per la liquidazione della quota del 5 x mille.
Si delega a un successivo Decreto non regolamentare del Presidente del Consiglio dei Ministri, da adottarsi entro 60 giorni, la definizione delle corrette modalità di redazione del rendiconto ai fini della corretta trasparenza dello stesso, pena le sanzioni di cui agli articoli 46 e 47 D.Lgs. 33 del 14/3/2013.
D. - «Secondo il Legislatore italiano cosa è da considerare attività commerciale e cosa non lo è? Quali sono i riferimenti di legge in proposito?».
R. La risposta non può essere univoca: infatti, vi sono due risposte, in parte diverse ma ciascuna corretta in relazione al tipo di legislazione cui si fa riferimento, civile e tributaria.
A) Per il legislatore civile la nozione di attività commerciale, non essendo espressamente enunciata, si ricava indirettamente, in via di interpretazione sistematica, da una serie di norme giuridiche:
1) L’art. 2195 del codice civile, che per individuare le attività soggette a obbligo di registrazione nel Registro delle Imprese, indica quali sono le imprese soggette alle disposizioni del Libro V, Titolo II, Capo III del codice civile, rubricato “delle imprese commerciali e delle altre imprese soggette a registrazione”. Si tratta delle seguenti tipologie di attività: 1) attività industriali dirette alla produzione di beni e servizi; 2) attività intermediaria nella circolazione dei beni; 3) attività di trasporto per terra, acqua, aria; 4) attività bancaria o assicurativa; 5) altre attività ausiliarie delle precedenti.
2) L’art. 2082 del codice civile, che definisce imprenditore “chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi”. Dunque, l’attività dell’imprenditore deve essere un’attività economica: secondo autorevole dottrina, un’attività condotta con metodo economico è quella che viene svolta secondo modalità che consentano quanto meno la copertura dei costi con i ricavi ed assicurino l’autosufficienza economica: non è quindi il fine lucrativo a conferire carattere di economicità all’impresa (Cass. 1367/2004). L’attività economica deve altresì essere organizzata: occorre che le risorse umane e materiali siano predisposte per l’esercizio dell’impresa.
Infine, l’attività deve essere esercitata professionalmente, quindi deve avere carattere di stabilità e abitualità, non deve svolgersi solo occasionalmente o in modo saltuario. La stagionalità dell’attività è ritenuta sufficiente a integrare il requisito della professionalità.
3) Connessa strettamente alla nozione di imprenditore è quella di azienda, che l’articolo 2555 c.c. definisce come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. La nozione di attività commerciale che la dottrina civilistica ha individuato, quindi, in base al criterio ermeneutico sistematico con riferimento alle citate norme, è la seguente: attività economica esercitata professionalmente da un soggetto, definito imprenditore, per mezzo di beni organizzati al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi. Riassumendo, gli elementi essenziali per qualificare un’attività come commerciale, sono, per il legislatore civile, i seguenti:
a) esercizio di attività di tipo economico
b) esercizio professionale dell’attività
c) organizzazione dei mezzi di produzione
d) tipologia di attività elencata all’articolo 2195 c.c.
B) Poiché, invece, il legislatore tributario è mosso da diverse finalità - come quella, ad esempio, di individuare la categoria reddituale del reddito d’impresa - la nozione tributaria di attività commerciale risulta essere più ampia di quella civilistica.
Ivi la norma di riferimento è soprattutto l’articolo 55 TUIR (DPR 617/86) che fornisce la definizione dei redditi d’impresa: “Sono redditi di impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’articolo 2195 del codice civile, e delle attività indicate alle lettere b) e c) dell’articolo 32, 2° comma, che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma di impresa”.
Da ciò si evince che le caratteristiche essenziali della nozione di attività commerciale ai fini tributari sono parzialmente diverse da quelle essenziali ai fini civilistici. La nozione che ne risulta è più ampia di quella civilistica. Infatti, essa comprende alcune attività agricole (quelle di cui alle lettere b) e c) dell’articolo 32, 2° comma, che eccedono i limiti ivi stabiliti) escluse dalla nozione di impresa commerciale ai fini civilistici (art. 2195 c.c.) in quanto esenti dall’obbligo di registrazione (artt. 2135 e 2136 c.c.). Inoltre, l’esercizio dell’attività economica può anche essere non esclusivo (ad esempio, può essere marginale o secondario) e l’attività può anche non essere organizzata in forma di impresa. Può quindi accadere che - nonostante il giudice civile non abbia qualificato come impresa commerciale una certa attività - ai fini del diritto tributario, la stessa attività possa essere considerata commerciale e quindi sia soggetta alle regole del reddito d’impresa, anche in mancanza di elementi qualificanti la nozione di impresa ai fini civilistici come, ad esempio, l’organizzazione dei mezzi di produzione (v. per tutte, C. Cass. 27605 del 28.9.2005, ove l’attività di sconto cambiario - che rientra nelle attività di cui all’articolo 2195 n. 4 c.c. - è stata considerata attività di tipo commerciale ai fini tributari - e quindi produttiva di reddito d’impresa - anche se i giudici fallimentari non l’avevano considerata tale).
2) Altro tema - che tuttavia in questa sede è opportuno lasciare sullo sfondo - è la c.d. de- commercializzazione di attività che solitamente il legislatore fiscale considera commerciali: ne è esempio concreto l’articolo 143 TUIR, relativo al reddito complessivo degli enti non commerciali residenti, ove stabilisce “per i medesimi enti non si considerano attività commerciali le prestazioni di servizi non rientranti nell’articolo 2195 del codice civile rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione”.